Nei giorni di caldissima estate, pedalando con disperante fatica tra le vigne dell’Oltrepò pavese, per strade, di asfalto o di terra battuta che raramente regalano dieci metri in piano, ho pensato che i ciclisti e i contadini si assomigliano.
Ho pensato che ci sono molte cose che li accomunano. Ciclisti e contadini accettano quel che manda il cielo: siccità o tempesta, gelo o canicola, vanno avanti comunque, facendosene una ragione. E riportando tutto dentro a un ordine forse superiore, o più semplicemente interiore. È un aspetto di una virtù più grande, che va sotto il nome, spesso santificato, di pazienza. Chi ha pazienza – vale a dire, etimologicamente, chi è abituato a fare conoscenza delle avversità, della fatica, se non addirittura del dolore – sa sempre come fare, anche quando tutti consiglierebbero di lasciar perdere. È un esercizio di calmo controllo, di gestione emotiva, di costante applicazione a un obiettivo – il raccolto, il traguardo – che vada a completare l’opera che incominciata. Perseverare senza rassegnarsi. Essere ostinati senza essere ottusi. C’è infatti un’acutezza nel sapersi conoscere e nel conoscere il tempo, non solo quello meteorologico, ma lo spartito delle nostre azioni: sapere quando è il momento di accelerare, di fare presto – il raccolto, la vendemmia, lo scatto per portare via la fuga, l’accelerazione in vista del traguardo – e quando conviene aspettare, addirittura rallentare. Ciclisti e contadini hanno una loro disciplina economica degli sforzi: mai esagerare con l’energia, mai staccare la spina. Le strade del ciclista sono i campi del contadino, i filari del vignaiolo. L’esperienza dell’une e degli altri porta a sapere che esiste un ordine eterno del mondo, che contadini e ciclisti hanno contribuito a modellare, a disegnare, tracciando solchi o solcando tracce.
Il mondo è cambiato. Sempre più rari i contadini, sempre più rari i ciclisti che erano contadini, o figli di contadini. I Bottecchia facevano gli ortolani, i Coppi coltivavano la terra sui bricchi argillosi dei colli Tortonesi e speravano, per il giovane Faustino, in un futuro di promozione sociale come masapursé, macellatore di maiali per farne salami e coppe (ma di quelle da mangiare). Il padre di Anquetil, Ernest, di mestiere capo-mastro, pur di non collaborare con l’occupazione nazista e costruire in Normandia le linee di difesa lungo l’Atlantico necessarie a contrastare gli sbarchi degli Alleati, si reinventò coltivatore di fragole a Quincampoix. Raymond Poulidor è cresciuto in una famiglia di mezzadri del Limousin. Bernard Thévenet, figlio di contadini di Saint-Julien-de-Civry, Borgogna del Sud, dove si allevano le bianche, enormi vacche charolaises, diceva che, in fondo, fare il ciclista era meno faticoso che coltivare la terra. Francesco Moser, e i suoi fratelli, da lungo tempo hanno vigne di Müller Thurgau in val di Cembra.
Difficile trovare oggi un contadino, e mica soltanto nel ciclismo. Resta però il fatto che pazienza, fatica, ostinazione, intelligenza di sé e della strada sono qualità (eroiche) fanno ancora oggi del ciclismo – e dei ciclisti – uno degli sport che non può fare a meno di non conoscere, e quindi anche di amare, le strade e i territori che ne conservano l’essenza.
Gino Cervi