La bellezza della fatica e il gusto dell'impresa
   Edizione 2024

Ero là, presente de visu, mentre Gianni Mura batteva sulla sua vecchia Olivetti questo manifesto del ciclismo eroico.

Sul caravan della Rai di Auro Bulbarelli, con cui avevo appuntamento all'arrivo di tappa di Montalcino, trovò rifugio (per fumatori) il nostro formidabile erede di Gianni Brera per scrivere i suoi commenti dell'incredibile tappa cui aveva appena assistito. Mura era reduce dal Processo alla Tappa della De Stefano, in cui aveva prevalso una certa linea dubbiosa circa l'opportunità che tappe con strada bianca, così sconvolgenti, fossero inserite dentro un grande Giro. Mi permisi di dire che proprio quelle facce fangose, quello spettacolo coinvolgente e catartico, potevano finire per interessare anche al di fuori dello zoccolo duro che seguiva ciclismo di normale, avrebbero attirato nuovi occhi sull'immagine e l'emozione che evoca la fatica estrema, l'impresa spinta ai limiti umani. Mi piace pensare che alla genesi di quello scritto abbia contribuito anche il parere dell'amico bartaliano Brocci, quello che si era inventato L'Eroica, compresa l'edizione per i professionisti. Ed è un piacere immenso ricordare che, subito dopo, appena Mura si era messo a battere sull'Olivetti, arrivò la chiamata dalla sua redazione: "Gianni, potresti raddoppiare le righe? Non si sa come mai, forse tutto quel fango, ma oggi al giornale abbiamo guardato tutti la tappa e succede praticamente mai". Ero lì, a volte gli astri trovano il modo di regalarti, premio privato alla carriera, un pezzetto di storia. E di far scrivere al più grande il paradosso di Montalcino: "Tanto più va all'indietro, alle radici, tanto più il ciclismo va avanti, riempie gli occhi e tocca il cuore". 


Giancarlo Brocci


15 Maggio 2010 ARRIVANO senza faccia, gli buttano coperte addosso, gli ripuliscono gli occhi. I vecchi suiveurs dicono che è come sul Bondone nel ' 60, sul Gavia nell' 88. Sì, ma quelle erano montagne, qui siamo a 554 metri. Ma la nebbia, il vento, la pioggia, il freddo, le facce, il fango, la fatica, tutto fa pensare a un'altra dimensione. È l'epica vera, questa, e porta la tappa direttamente dalla cronaca alla storia di questo sport meraviglioso e maledetto. Possibile che bastino pochi chilometri di sterrato? Sì, come bastano quei chilometri di pavé alla Parigi-Roubaix. Sì, se il buon Dio, piuttosto generoso con queste contrade di vigne e boschi, spedisce dalla partenza all' arrivo un tempo da Giro delle Fiandre. La gente, ammirevole nella sua pazienza, applaude tutti quei fantasmi su due ruote, con le mantelline impermeabili che svolazzano. Sono bravi tutti, e nessuno del pubblico in momenti così si fa domande sul doping, l'antidoping, i reticolociti, il gruppo che viaggia a 60 all'ora. Questo ciclismo che torna all' antico recupera improvvisamente l'innocenza perduta e una dimensione umana che unisce tutto il gruppo. Forse non è un caso che il primo al traguardo sia il campione del mondo, Cadel Evans. L' ultimo Murphy, arriva dopo 26' abbondanti. Distacchi da tappone, solo che qui ci si stacca sull' erta di Castiglione del Bosco, non sullo Zoncolan o sul Tourmalet. Non quadrano i punti di riferimento, i termini di paragone, ed è in questo apparente caos che il ciclismo si ritrova, che espia pubblicamente i suoi peccati passati e futuri, che esibisce la sua antica vocazione alla fatica, che riesce a brillare pur coperto di un fango non metaforico ma reale, parente del fango che imbrattò Gerbi e Garrigou, Bottecchia e i Pelissier. Se volete, lo si potrà chiamare il paradosso di Montalcino: quanto più va all' indietro, alle radici, tanto più il ciclismo va avanti, riempie gli occhi e tocca il cuore. © RIPRODUZIONE RISERVATA


(g. m.)



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